Il Green Deal

24.03.2021

Il Green Deal dell'Unione europea rischia di diventare un cattivo affare per il pianeta. Annunciato nel dicembre 2019, mira a rendere l'Europa il primo continente più sostenibile possibile entro il 2050. Stabilisce obiettivi per ridurre le emissioni di anidride carbonica e migliorare foreste, agricoltura, trasporti verdi, riciclaggio ed energie rinnovabili. L'UE vuole mostrare "al resto del mondo come essere sostenibile e competitivo". La Commissione europea ha presentato nel luglio 2019 una comunicazione che propone modi per intensificare l'azione dell'UE per proteggere le foreste del mondo, in particolare le foreste primarie, e ripristinare le foreste in modo sostenibile e responsabile, con cinque priorità.

LE CINQUE PRIORITÀ PER PROTEGGERE LE FORESTE:

Ridurre l'impronta del consumo dell'UE sulla terra e incoraggiare il consumo di prodotti provenienti da filiere prive di deforestazione nell'UE; Lavorare in collaborazione con i paesi produttori per ridurre le pressioni sulle foreste e per "a prova di deforestazione" la cooperazione allo sviluppo dell'UE; Rafforzare la cooperazione internazionale per fermare la deforestazione e il degrado forestale e incoraggiare il ripristino delle foreste; Reindirizzare i finanziamenti per sostenere pratiche di utilizzo del suolo più sostenibili; Sostenere la disponibilità, la qualità e l'accesso alle informazioni sulle foreste e sulle catene di approvvigionamento delle materie prime; e sostenere la ricerca e l'innovazione. Ma ci sono alcune contraddizioni. In primo luogo, l'UE dipende fortemente dalle importazioni agricole; solo la Cina importa di più. L'anno scorso, la regione ha acquistato solo un quinto dei raccolti e lo 0,01% di carne e latticini consumati all'interno dei suoi confini (118 megatonnellate (Mt) e 4 Mt, rispettivamente). Ciò consente agli europei di coltivare in modo meno intensivo. Eppure le importazioni provengono da paesi con leggi ambientali meno rigide di quelle europee. E gli accordi commerciali dell'UE non richiedono che le importazioni siano prodotte in modo sostenibile. Ogni nazione definisce e applica la sostenibilità in modo diverso. Molti utilizzano pesticidi, erbicidi e organismi geneticamente modificati che sono invece rigorosamente limitati o vietati nell'UE.

Quindi cosa sta succedendo realmente?

Gli stati membri dell'UE stanno esternalizzando i danni ambientali ad altri paesi, prendendo il merito delle politiche verdi a casa. Sebbene l'UE riconosca che sarà necessaria una nuova legislazione in materia di commercio, a breve termine non cambierà nulla con il Green Deal. Tali impatti devono essere evitati se il Green Deal intende migliorare la sostenibilità globale. Esso mira a ridurre l'uso di fertilizzanti in Europa del 20% e di pesticidi del 50%, con un quarto della terra da coltivare biologicamente entro il 2030. L'UE prevede di piantare 3 miliardi di alberi e ripristinare 25.000 chilometri di fiumi e invertire il declino degli impollinatori. Però l'UE è responsabile del 7-10% del consumo globale di colture e prodotti zootecnici associati alla deforestazione nei paesi di origine. È anche tra i principali importatori di materie prime legate alla deforestazione, tra cui olio di palma, soia, gomma, manzo, mais, cacao e caffè. Questa situazione può essere anche collegata ad un altro grave fenomeno quello del cosiddetto Neo-colonialismo agricolo e "land grabbing". Da cinque anni a questa parte, colossi economici governativi e non realizzano enormi investimenti sulle distese agricole dei Paesi in Via di Sviluppo, per garantirsi l'approvvigionamento diretto delle derrate. L'espressione "neo-colonialismo" - coniata dal Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf - è riferita ai terreni dove si realizza circa un quinto della produzione mondiale di cibo, oggetto di conquiste da Paesi più o meno lontani come Cina e Corea del Sud, India, Kuwait, Qatar, Yemen, Arabia Saudita. La Banca Mondiale stima che gli acquisti e gli affitti internazionali di terre interessino circa 50 milioni di ettari in Africa, Asia e America Latina: una stima prudente in assenza di notizie certe, a causa dell'opacità di contratti spesso non soggetti a obblighi di registrazione. La Cina, per citare qualche esempio, si è aggiudicata proprietà e sfruttamento di latifondi in Camerun, Tanzania e Mozambico (per il riso), Uganda e Zimbabwe (cereali), Filippine, Laos, Kazakhstan, ecc. Alcuni osservatori parlano di vero e proprio "land grabbing" (appropriazione di terreni), in casi come quello della sudcoreana Daewoo che nel 2008 aveva provato ad acquisire un diritto di utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari, il 50% delle terre arabili del Madagascar per la durata di 99 anni (tentativo poi fallito grazie alle proteste internazionali). Le differenze tra il metodo neo-colonialista e l'approccio europeo alla cooperazione non sono del tutto trascurabili. 

1) accesso delle popolazioni locali alle risorse produttive. I "neo-coloni" spesso acquistano le piantagioni direttamente dai governi locali, in assenza di diritti o documenti che riconoscano e attestino la proprietà di molte aree

2) destino delle produzioni. I raccolti sono esclusivamente destinati all'export. Si investe solo sulle monocolture (senza badare alla loro in-sostenibilità), in alcuni casi per produrre bio-carburanti anziché cibo.

Il paradosso? Paesi come il Sudan e l'Etiopia, a dispetto della grave malnutrizione che affligge le loro popolazioni, sono grandi esportatori di derrate agricole delle quali hanno completamente perso il controllo. Ma il diritto internazionale (OMC, contratti bilaterali di investimento) tuttora non lascia scampo.

Capuzzo, Rubiola, Battisti 4Cs


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